Carburante dalle plastiche non riciclabili
A colloquio con l’ideatore di un brevetto per un impianto a ciclo chiuso di piccole dimensioni in grado di valorizzare gli scarti in plastica da veicoli fuori uso per la produzione di carburante ed energia elettrica.
Riduzione delle quantità di rifiuti stoccati e produzione di energia elettrica per autoconsumo (o per re-immissione nella Rete nazionale) a partire dall’utilizzo di carburante autoprodotto nel pieno rispetto dell’ambiente. È questa la strategia che da tempo si tenta di perseguire attraverso la tecnica della pirogassificazione di materiale plastico; una pratica di economia circolare peraltro prevista anche dalla gerarchia europea dei rifiuti, la quale indica proprio nella valorizzazione energetica l’ultimo step per la quota residuale di rifiuti non ulteriormente riciclabili.
E non a caso, malgrado le tante difficoltà ancora in corso per quanto riguarda il nostro Paese, proprio a queste soluzioni si guarda da tempo per risolvere il problema del car fluff.
Tuttavia gli impianti di autodemolizione hanno anche il problema di conferire grandi quantitativi di plastica non riciclabile come quella dei serbatoi di carburante, dei paraurti, delle parti interne all’abitacolo che non hanno un grande valore sul mercato ma una massa notevole in termini di stoccaggio ed un interessante potenziale calorifico.
Durante la Fiera ECOMONDO– The Green Technology Expo, abbiamo avuto modo di interloquire con l’Ing. Filippo Bosco progettista ed ideatore un impianto sperimentale di pirogassificazione a bassa temperatura, contenuto nelle dimensioni e particolarmente interessante per piccoli e medi centri di autodemolizione che potrebbero destinarvi le parti in plastica di risulta dal trattamento e bonifica dei veicoli a fine vita: principalmente paraurti e serbatoi.
Ing. Bosco, può presentarci il suo brevetto?
Beh, il processo in se non è certo una novità assoluta, è noto da tempo che qualsiasi prodotto derivato per cracking dal petrolio può essere riconvertito attraverso processi chimico-fisici nell’idrocarburo originale.
La novità assoluta del modello di impianto che ho progettato è rappresentata dal sistema di pirolisi assolutamente innovativo che adotta una “camera con radianti interne” che consente un’economia notevole in termini di efficienza energetica rispetto a sistemi tradizionali che vengono riscaldati dall’esterno.
In buona sostanza le plastiche da veicoli a fine vita come ad esempio i paraurti, i serbatoi, le pannellature interne delle portiere, dopo aver subito un processo di triturazione vengono inserite all’interno di un forno catalizzatore alla temperatura di 450° C.
Dal processo di pirolisi si ottengono circa il 90% di kerosene e il 7- 8% di gas, che viene riutilizzato per alimentare il ciclo nell’ottica del massimo risparmio energetico e della sostenibilità del processo.
La parte residuale la cui quota varia dall’1 al 3% in base al carico chimico della plastica utilizzata è carbone di pirolisi che può avere ulteriore applicazione come colorante per plastiche o per la produzione di carboni per filtri.
Quali sono le capacità produttive di un impianto di piccole dimensioni quali quelle di cui stiamo parlando?
Se noi consideriamo un impianto medio piccolo capace di conferire circa 200 Kg/ora di plastiche di questo tipo e che lavora su tre turni, ovvero, 8.000 ore all’anno avremo una produzione di energia elettrica che si aggira sui 600 KW/ora dal momento che il carburante ottenuto va ad alimentare un sistema di cogenerazione con un motore diesel bifuel che, attraverso un alternatore, produce energia elettrica.
L’impianto ha una gestione a costo “zero”, incassa i soldi di conferimento che si aggirano attorno ai 180 € a tonnellata e produce energia elettrica che può essere consumata immediatamente in loco oppure rimessa in rete ad un prezzo medio di 0,18 €/KW rispetto al costo medio di acquisto di 20-22 €/KW del gestore nazionale.
Queste due fonti di entrata (energia elettrica prodotta e mancato conferimento a Terzi di materiale di scarto) per un impianto da 600 KW danno una marginalità lorda complessiva di 1.152.000 € l’anno che ne consente l’ammortamento nel giro di 2 – 3 anni.
Ing. Bosco, lei sta proponendo questa soluzione con l’Associazione di Autodemolitori ADQ, ma un operatore del fine-vita dei veicoli che volesse investire in questo impianto a quale spesa sarebbe messo di fronte?
Se l’operatore utilizzasse strumenti di finanziamento CE spenderebbe il 20-30% circa del costo di installazione dell’impianto perché questo tipo di tecnologia e di installazione rientra fra quelle finanziabili con Horizon 2020 oppure da Invitalia nel settore tecnologia innovativa.
Infatti, sono recuperabili le spese relative alle royalties del brevetto, le spese di ricerca e di impianto e anche le spese di esercizio per i primi anni.
Secondo il business plan in fase di redazione il costo di impianto dovrebbe aggirarsi intorno al milione e mezzo, due milioni di euro.
Considerando che il fatturato supera il milione e centomila Euro l’anno, in effetti non esistono impianti industriali con queste redditività.
Dal punto di vista delle emissioni quali garanzie può dare l’impianto, tenendo conto che non è facile far accettare alle popolazioni locali la presenza di un “forno che brucia plastica”?
La “pirolisi catalitica a bassa temperatura” in ambiente neutro di fatto è una dissociazione molecolare e non provoca precursori di diossina, nè emissioni odorigene o altre emissioni in atmosfera, perchè i gas prodotti ed i relativi combustibili di condensa vengono tutti inviati al motore, che – quanto alle proprie emissioni – è normalmente dotato della propria marmitta catalitica.
Si può quindi affermare che la nostra pirolisi non provoca emissioni in atmosfera: l’impianto è a tutti gli effetti a ciclo chiuso e non è assolutamente dannoso per l’ambiente. È importante considerare che questa tipologia di impianto è molto piccola per cui la sindrome NIMBY (NdR: acronimo di “not in mybackyard”; traducibile in: “non nel mio giardino”) non dovrebbe sussistere.
In fin dei conti, si tratta di un impianto dell’ingombro di due container all’interno dei quali lavora un semplice motore diesel delle dimensioni paragonabili a quelle di un autobus.
Lei ha già avuto modo di parlare con dei professionisti del settore e che impressione ne ha avuto?
Già una ventina di anni fa, in contemporanea con due ditte di Torino e di Terni, avevamo tentato di realizzare il progetto con scarsi risultati, questo perché i tempi allora non erano maturi e il carburante prodotto non poteva essere utilizzato per scopi interni alle aziende produttrici stesse, né essere venduto a terzi se non a raffinerie obbligate per legge ad utilizzare una quota di carburante “rinnovabile”.
In effetti, successivamente, la raffineria si è accorta che era conveniente pagare l’ammenda per il mancato utilizzo di rinnovabili anziché acquistare il nostro carburante a circa 900 €/t; quindi non è mai partita la fase produttiva.
Adesso le cose sono cambiate: tutta la plastica non riciclabile fino a qualche anno fa veniva portata in Cina che però adesso non ne vuole più importare, quindi ci troviamo con materiale di stoccaggio che continua ad aumentare di volume e che non ha altra destinazione possibile che una sua eventuale trasformazione energetica, perché non può essere avviato a discarica per il suo alto potere calorifico che obbliga al suo utilizzo “energetico”.
In sostanza, di questo tipo di scarto non si sa che farne, e d’altronde lo stoccaggio temporaneo non può oltrepassare un periodo predefinito.
Quindi il momento è sicuramente maturo per riprendere questa idea e portarla avanti con buon esito.