PROTOCOLLO DI KYOTO: I CONTI TORNANO?
Dopo “Kyoto” e aspettando il “post-Kyoto”, dubbi e perplessità sulle strade da percorrere contro il global warming
Protocollo di Kyoto, 4 anni dopo. All’indomani del quarto compleanno dell’accordo, entrato in vigore proprio il 16 febbraio 2005 e volto a disciplina- re gli obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra per i paesi industrializzati e con economie in transizione, si stilano i primi bilanci. Dopo le promesse enunciate nel Protocollo (riduzione delle emis- sioni dei gas serra nel periodo 2008-2012 del 5,2% a livello globale, dell’8% per l’Europa e del 6,5% per l’Italia, rispetto alle emissioni del 1990), per l’Europa e per l’Italia in particolare è tempo di tirare le somme. A che punto siamo nel cammino che porta al raggiungimento degli obiettivi del Protocollo? E soprattutto ne varrà la pena? A parlare sono i numeri, ovvero i da- ti del “Dossier Kyoto”, realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, proprio alla vigilia del quarto anniversario.
Mentre le emissioni mondiali di CO2 dal 1990 al 2006 sono aumentate di ben 7 tonnellate, da 20,95 a 27,89 tonnellate (cfr. tab. 1 e 2), l’Italia sembra aver invertito il trend delle emissioni: dal 2005, anno dell’entrata in vigore del Protocollo, al 2008 le emissioni sono scese da 578 milioni a 550 milioni di tonnellate (cfr.tab. 3). Il calo, iniziato nel 2006, si è poi consolidato nel 2007 e nel 2008 anche a causa del consistente aumento del prezzo del petrolio, riporta il Dossier. “Alla fine del 2008 è arrivata la crisi e il prezzo del petrolio è calato – aggiunge Edo Ronchi, presidente della Fondazione e firmatario del Protocollo – ma sono scesi anche i consumi di energia”. E la crisi tutt’ora in corso lascia pensare che la riduzione proseguirà anche nel 2009. Insomma le proiezioni al 2012, secondo il Dossier, sembrerebbero portare l’Italia sempre più vicina agli obiettivi di Kyoto. “L’Italia ce la può fare a rispettare gli impegni presi in sede internazionale”, sottolinea la Fondazione. Secondo i calcoli e le previsioni con- tenute nel Dossier, nel 2012 l’Italia potrebbe così raggiungere quota -5,6%, avvicinandosi così in maniera consistente al traguardo del -6,5% (rispetto al 1990) fissato a Kyoto nel 2005. Sulla scia dell’Italia anche l’Europa, secondo il Dossier. Anzi, per l’Agenzia europea dell’ambiente, l’Unione Europea non solo sarà in grado di centrare il target dell’8% fissato a Kyoto, ma sarà anche in grado di superarlo, raggiungendo una riduzione di emissioni dell’11,3 %. Decisamente meno ottimistiche nel fare previsioni, sono invece WWF, Legambiente e Greenpeace che giudicano il nostro paese “immobile” nel far fronte agli impegni presi a livello internazionale con l’accordo. “L’Italia rischia un autentico suicidio per la propria credibilità internazionale se non continuerà a fare nulla per attuare gli impegni previsti”, dichiarano WWF, Legambiente e Greenpeace in un comunicato congiunto. Nel mirino delle associazioni ambientaliste dunque c’è proprio la mancanza di un’adeguata politica ecologica: “Il nostro Paese – commentano – non so- lo non ha una strategia valida ma sta dando indicazioni contraddittorie con un rilancio del carbone e del nucleare a danno dello sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica”. Ma se la situazione italiana preoccupa, quella globale preoccupa ancora di più. Nonostante l’impegno dei Paesi del Protocollo di Kyoto nella riduzione delle emissioni, le emissioni mondiali sono aumentate di un terzo in soli sedici anni. Sono due le cause principali del fallimento del Protocollo oggi: la mancata adesione al Proto- collo e il conseguente scarso impegno della precedente amministrazione de- gli Stati Uniti (che anziché ridurre le emissioni, nel 2006 le ha aumentate del 16% rispetto al 1990) e il forte e rapido sviluppo dei Paesi di nuova industrializzazione (come la Cina), ormai responsabile del 53% delle emissioni globali. Ecco perché secondo la Fondazione Sviluppo Sostenibile “il Protocollo di Kyoto è un primo passo necessario ma insufficiente”. E sebbene il “green new deal” annunciato dal neo presidente Obama lasci ben sperare, di fronte alla grave crisi climatica in atto, la necessità di una “governance globale dell’ambiente” diventa sempre più urgente e il nuovo trattato per il clima post Kyoto, previsto a dicembre a Copenaghen, rimane la sola possibilità per invertire il trend in corso. A sotto- lineare l’urgenza di una nuova politica ambientale globale è proprio il diretto- re generale dell’UNEP (United Nations Environment Programme), Achim Steiner che in “Year Book 2009”, il rapporto sui cambiamenti ambientali globali, presentato in occasione del Fo- rum ministeriale sull’ambiente, svoltosi lo scorso febbraio a Nairobi, ricorda alla comunità internazionale l’urgenza di passare ad un’economia verde e il bisogno urgente di una governance responsabile per un pianeta che è sempre più vicino al superamento di soglie critiche e a punti di non ritorno. E gli studi sull’Amazzonia contenuti nel Rapporto lo dimostrano. Basti pensare che gli alti livelli di CO2 responsabili del riscaldamento dell’oceano e della diminuzione del 40% delle piogge, oltre che della conseguente diminuzione della crescita della vegetazione del 53%, potrebbero far aumentare le temperature locali di 8 gradi. Dati che sono ben peggiori di quelli contenuti nel rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Clima- te Change) del 2007 secondo cui, senza le emissioni di CO2 dell’ultimo secolo, le temperature sarebbero state più basse di 0,7 °C. Se l’IPCC nel 2007 prevedeva infatti un aumento tra i 18 e i 59 cm del livello degli oceani nei prossimi 100 anni, le nuove previsioni UNEP sullo scioglimento dei ghiacciai stimano infatti l’innalzamento del mare tra i 0,8 e 1,5 metri nel prossimo se- colo. Ma oltre ad individuare le cause della crisi climatica, il Rapporto IPCC delinea anche le possibili soluzioni per contenerla: per limitare entro i 2 °C la variazione della temperatura media globale (variazione che produrrebbe effetti significativi, ma comunque sostenibili per l’ambiente) è necessario ridurre le emissioni mondiali del 60-80% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2050 e del 20% entro il 2020. Di qui la necessità di nuovi traguardi di riduzione delle emissioni “post-Kyoto”, ovvero per il periodo seguente al 2012. Da cui deriva la necessità di un nuovo Trattato per il clima post Kyoto, proprio in occasione della Conferenza ONU sul clima, il prossimo dicembre a Copenaghen. L’obiettivo? Arrivare ad un taglio del 30% delle emissioni di CO2 da parte dei Paesi sviluppati entro il 2020, ben oltre alla soglia del 20% che l’Unione Europea si è comunque impegnata a raggiungere con il pacchetto di misure approvate nel dicembre scorso e contenere il riscaldamento globale entro i 2 °C al di sopra della temperatura preindustriale, onde evitare conseguenze irreversibili per il nostro pianeta. Il costo? Secondo l’UE, 175 miliardi di euro all’anno entro il 2020. Secondo gli esperti dell’Università Bocconi e di Accenture molto di più: oltre 300 miliardi di euro da qui al 2020. Uno studio co- ordinato da Andrea Gilardoni per la Bocconi e da Claudio Arcudi per Accenture nell’analizzare il mix energetico ideale per la produzione elettrica (flessione della generazione da fonti fossili a vantaggio di temovalorizzazione e rinnovabili), mette infatti in evidenza come questo “mix verde” risulti abbastanza oneroso dal punto di vista economico. Di qui, secondo lo studio, la necessità di una politica di sussidi e di un esborso extra di 150 miliardi di euro per gli Stati. Una spesa non indifferente per le finanze pubbliche. Ecco allora che l’ideale per l’ambiente non sembra quindi l’ideale per le tasche dello Stato. E allora? Che fare? Se poi si considerano pure le stime fallimentari di Frost&Sullivan sugli impegni assunti in materia di biocarburanti con la firma del protocollo di Kyoto, il dubbio raddoppia. Secondo lo studio infatti l’obiettivo del 5,75% di quota di biocarburanti sul totale dei consumi di combustili fissato dall’UE entro il 2010 è una chimera: l’Europa al 2010 non riuscirà ad andare oltre il 5% e a maggior ragione non riuscirà a raggiungere il traguardo del 10% al 2020. Se infatti i biocarburanti di prima gene- razione sono antiquati e “sorpassati” per quanto riguarda la riduzione dell’effetto serra, quelli di seconda non sono invece ancora disponibili. Ecco allora che l’unica via praticabile per l’Europa per centrare il target fissato è il migliora- mento del processo di conversione e la riduzione del prezzo di estrazione rispetto a quella della produzione dei carburanti fossili. Un ipotesi sostenibile quindi, quella dei biocarburanti, ma praticabile? Secondo Vito Pignatelli, responsabile Gruppo Sistemi Vegetali per Prodotti Industriali dell’ENEA, sembrerebbe di no: per raggiungere l’obiettivo del 5,75 in materia di biocarburanti con i mezzi di cui dispone, l’Unione Europea dovrebbe infatti utilizzare 26 milioni di ettari di territorio agricolo, cioè un quarto di quello di cui dispone. Oltre che dalle magre prospettive, l’ipotesi sembra anche irrealizzabile. E allora che fare? Bella domanda… A 4 anni da Kyoto, aspettando un post-kyoto, mentre i bilanci si ricorrono e studi e contro- studi si inseguono, l’importante è non confondere la strada che si vuole per- correre con la meta.