Il settore è in cammino verso la piena legittimazione delle proprie aspettative
Intervista ad Alfonso Gifuni, Vicepresidente ADA
Il Decreto Legislativo 209/2003 che disciplina la gestione dei veicoli fuori uso, illustrato nel suo contenuto normativo nella prima uscita di questa pubblicazione dal Vicepresidente Alfonso Gifuni, rappresenta un testo decisamente più chiaro che segna il superamento normativo del Decreto Ronchi, distinguendosi per una diversa e più snella disciplina del processo di recupero e dei metodi di lavorazione dei materiali provenienti dai veicoli fuori uso. Tuttavia, come sottolineato dall’Associazione Nazionale Demolitori Autoveicoli (ADA), il decreto, presentando delle imperfezioni, non consente di legittimare pienamente le aspettative del settore.
Una valutazione che, del resto, coincide pienamente con quella della Commissione Europea. Ce ne ha parlato ancora una volta Alfonso Gifuni, Vicepresidente dell’ADA. Sig. Gifuni cosa ha impedito al testo di Legge 209/2003 di corrispondere pienamente alle aspettative del settore? L’ADA, rappresenta una Associazione la cui struttura sindacale ha guidato la crescita del settore che oggi conta su circa 600 associati e che ha segnato, attraverso tappe successive, la storia del settore anche dal punto di vista normativo, fin da quando è stato scritto il Decreto Ronchi, un testo piuttosto disponibile a recepire le indicazioni fornite dall’Associazione e che è stato positivamente superato dall’introduzione del D. Lgs. 209/2003 che, nonostante abbia rappresentato un ulteriore passo avanti, non si è posto in modo risoluto di fronte alle legittime aspettative del settore, peraltro condivise, dalla Commissione Europea, in sede di valutazione. Pertanto, il Governo italiano, con un provvedimento che è stato ratificato il 15 dicembre 2004 è stato messo in mora in relazione alla imperfetta redazione del 209, in modo particolare rispetto ad alcuni punti, nodi focali della gestione, ossia riguardo alla responsabilità economica del fine vita del veicolo, che deve considerarsi in capo al produttore in quanto tale. In osservanza del “chi inquina paga”, infatti, prevale il principio che tutti i beni di consumo divengono onere, a fine vita, di chi li ha prodotti. Da questo punto di vista, quindi, il decreto, non avendo recepito il concetto, presenta un handicap per cui l’Associazione sta incontrando notevoli difficoltà per trovare la giusta intesa con il produttore, il quale avvantaggiato da questa circostanza normativa, sta di fatto negando l’onere di dover corrispondere il contributo economico, almeno per quella parte che l’Associazione dimostri essere lo scarto negativo nella gestione del fine vita del veicolo. D’altronde anche la Direttiva comunitaria n. 2000/53, alla quale è ispirato il 209, contiene già il principio della responsabilità economica del produttore. Ora siamo nella fase di individuazione delle Linee guida per la scrittura di un Protocollo d’intesa insieme al produttore. La trattativa, che anteriormente si era arenata quando il produttore, poggiando su una soluzione iniqua ci aveva proposto un contratto estremamente riduttivo delle nostre necessità, che vedeva affidarci la completa responsabilità economica di tutta la filiera di fine vita del veicolo, costringendo l’ADA ad impugnare tale comportamento anche di fronte alla Procura della Repubblica e all’Antitrust, poiché ritenuta pienamente lesiva della figura dell’autodemolitore, si è riaperta proprio in questi giorni. Infatti la firma di un tipo di protocollo come quello proposto avrebbe penalizzato le nostre imprese, inficiato il funzionamento del sistema e la rete di demolizione che la nostra Associazione rappresenta in modo significativo. Con la firma di un simile accordo e, consequenzialmente dei contratti relativi alle singole imprese, gli associati ADA sarebbero rimasti prigionieri di vincoli che entro breve tempo avrebbero causato la morte delle imprese o, nel caso di imprenditori meno onesti, la ricerca di soluzioni più economiche e meno compatibili con l’ambiente. Impugnare il provvedimento e riprendere il negoziato ha sicuramente dato uno scossone alla vicenda, che spero entro il mese di novembre ci veda impegnati nella firma dell’intesa. Sostanzialmente si tratta della battaglia più significativa della nostra storia sindacale, in cui ha giocato un ruolo fondamentale il riconoscimento della validità delle nostre osservazioni da parte della Commissione Europea che in tal modo le ha evidenziate al Governo al fine della trascrizione nel Decreto 209. Il riconoscimento della nostra tesi rappresenta un passaggio importante per l’Associazione e il prologo per definire, ottimizzandola, l’attuale figura del demolitore. Attualmente ci attendiamo che con l’emanazione della Legge Delega Ambientale, si arrivi a formulare un compendio di norme che recepiscano tutte le nostre legittime necessità e ci auguriamo, in vista di tale obiettivo, di proseguire il positivo confronto con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, così come con tutti gli altri Ministeri firmatari della Delega. Negli anni passati la figura dell’autodemolitore ha avuto, a torto o a ragione, una collocazione negativa nell’immaginario collettivo. Si è trattato, appunto, solo di considerazioni distorte? La figura negativa dell’autodemolitore, sopravvissuta nell’opinione pubblica per moltissimi anni, ha anche di fatto reso faticoso il percorso della legittimazione all’interlocuzione con le istituzioni, considerando la categoria come fortemente inquinata da elementi che ne hanno sminuito il ruolo. Bisogna riconoscere che per certi versi inquinata lo è stata, ma ritengo che i motivi che hanno determinato un comportamento di negligenza del demolitore in generale, fossero anche conseguenti ad un comportamento di trascuratezza delle istituzioni nei loro confronti. Mi spiego: era certamente noto a tutti in che modo lavorassero alcune imprese; e questo sarebbe stato sufficiente per effettuare i necessari controlli, prendendo i dovuti provvedimenti, ciononostante questo non è accaduto, anzi è sorta una sterile consuetudine a prendere di mira il demolitore perché ritenuto responsabile di tutti i mali, sia di impatto ambientale sia di ordine pubblico. Oggi, in confronto al passato in cui era preponderante una figura di imprenditore del comparto non proprio ortodossa, prevale nettamente un tipo di imprenditoria con caratteristiche certamente più nette di correttezza ed onestà e questo cambiamento si è determinato a seguito dell’evoluzione della legislazione in materia più flessibile e quindi più facile da ottemperare. Per fare un esempio, il DPR 915 scritto nel 1982, sostituito dal Ronchi, credo non servisse tanto per fornire autorizzazioni alle nostre imprese, quanto per eliminarle, prevedendo l’autorizzazione esclusivamente per quelle imprese preesistenti alla data di promulgazione del decreto e facendo divieto di crearne di nuove. Un provvedimento che appariva inconstituzionale soprattutto se posto accanto alla prerogativa della destinazione urbanistica dei siti che doveva essere di tipo produttivo. Benissimo, ma se nello stesso decreto veniva anche impedita la delocalizzazione, posto che non si avesse la destinazione urbanistica prescritta (come del resto pochi avevano: n.d.r.), considerando poi che veniva impedito di spostarsi e di creare aziende ex novo in zone industriali, l’applicazione del decreto comportava inevitabilmente che le Aziende in questione non avessero altra scelta che quella di chiudere. Questo giustifica il persistere degli autodemolitori anche in zone non industriali? Ritengo che esista una buona parte di autodemolitori che non ha avuto una gestione attenta dal punto di vista funzionale. Però è anche da sottolineare che gli effetti del provvedimento del DPR 915, avendo impedito sia la delocalizzazione sia la creazione di nuove attività, hanno di fatto favorito la permanenza in condizioni non idonee delle aziende, dalle quali però non si può pretendere la scomparsa con un colpo di spugna, considerati i sacrifici di un investimento produttivo. Cosa è accaduto poi con il Decreto Ronchi? È accaduto che finalmente si è arrivati alla possibilità di delocalizzare, rimuovendo gli impedimenti del DPR 915. Comunque durante gli anni che avevano, per così dire, inficiato una corretta gestione, alcune aziende avevano ottenuto in via provvisoria l’autorizzazione ad effettuare lavori essenziali che davano almeno garanzia di limitazione di impatto ambientale: opere viarie infrastrutturali, come la fabbricazione di piazzali, che garantissero che la demolizione delle auto non fosse inquinante. Tutto ciò ha ovviamente contribuito a consolidare la presenza delle aziende in posti non idonei. Non era quindi cosa da poco convincere gli imprenditori alla delocalizzazione, la quale comportava inesorabilmente anche un certa perdita di investimenti. Ulteriore difficoltà era determinata dall’individuazione e acquisizione di siti idonei, considerata, in molti cas l’assenza di piani regolatori o particolareggiati operanti e immediatamente disponibili. Oltre al fatto che collocarsi su zone urbanisticamente idonee, significava estrapolare completamente l’attività da un contesto ben individualizzato, sia strutturalmente sia come rete di utenza, per farla imprenditorialmente ripartire da zero. Non ritiene altrettanto contraddittorio che si mantengano aziende autodemolitrici in aree residenziali sacrificando la destinazione di alloggi abitativi altrove? Non intendo giustificare quelli che stanno ancora lì, ma in qualche modo intendo illustrare le ragioni per le quali hanno resistito. In città come Roma, ad esempio, ci sono delle impossibilità palesi e non sanabili, ma in moltissimi Comuni d’Italia ci sono attività ben attrezzate oggi ubicate in zone di tipo agricolo, una destinazione urbanistica più permeabile rispetto ad altre per cambiamenti di destinazione nei piani regolatori, soprattutto se in quelle zone non sono previste infrastrutture di tipo pubblico o vincoli di sicurezza ambientale. Certamente non sono difendibili, ad esempio, situazioni di attività collocate sotto i ponti dell’autostrada o lungo una linea ferroviaria dismessa o in altri posti privi di garanzie di sicurezza. Per attività, invece, a cui è stato concesso di investire in via provvisoria si potrebbe, a mio avviso, ritenere emendato il piano regolatore, considerato che gli organismi che hanno contribuito alle autorizzazioni, sia pur provvisorie, sono gli stessi soggetti istituzionali che compongono la Conferenza dei Servizi. In altre parole la realizzazione di un impianto di bonifica e messa in sicurezza dei veicoli, potrebbe rappresentare, sempre nel rispetto delle compatibilità, un interesse complessivo difendibile, realizzabile con un emendamento di fatto del piano regolatore che modifichi la destinazione di un determinato posto in funzione di tutte quelle autorizzazioni e quei pareri concessi precedentemente. Naturalmente si tratta di una tesi di ordine sanatorio: quello che l’ADA propone è la collocazione delle imprese in siti idonei. Queste sono state le battaglie fondamentali di questa Associazione, portate avanti accanto ad un processo di evoluzione culturale dell’impresa, molto riuscito grazie al collegamento informativo e comunicativo, estremamente funzionale sia di interpretazione, sia di illustrazione e di inquadramento della norma. Con quale atteggiamento l’ADA si propone agli associati? Pretendiamo, quali vertici dell’Associazione, che tutto il materiale cartaceo che testimonia la corretta gestione dell’impianto giunga propedeuticamente al rinnovo dell’adesione, cosicché se un impianto non risulta completamente a norma, non venga confermata l’adesione. Quanti autodemolitori risultano regolarmente autorizzati? Sono circa 600 le imprese associate su un totale autorizzato in Italia di circa 1600, cifra che può arrivare a 2000 se si tiene conto anche delle autorizzazioni provvisorie di cui due terzi, se tutto procede bene, riescono a diventare definitive. Su questo risultato ovviamente pesa il fardello delle destinazioni urbanistiche, soprattutto su taluni che non si sono posti il problema per tempo, confidando in una precarietà infinita. Mi auguro che le sanatorie alle inadempienze rispetto alla Direttiva comunitaria, in questi giorni al vaglio definitivo del Governo, non si risolvano in palliativi, anche se la fiducia che nutro nei confronti di questo Esecutivo mi fa sperare in una reale soluzione del problema, perché è da sottolineare che non esiste più negli operatori il convincimento di aggirare la norma, anzi nella norma si vuole ritrovare il bene supremo, la certezza, così da garantire chiarezza ed applicabilità.